Sono passati dieci anni da quando quasi l’80% dei lavoratori dipendenti ha detto “NO” alla previdenza complementare, per lasciarla in ditta.
Mi ricordo che, in quel periodo, avevo organizzato molti salotti finanziari in aziende con i lavoratori, ma lo scetticismo regnava sovrano.
A dieci anni dall’entrata in vigore della legge 252/2005 è invece evidente che la maggioranza ha compiuto la scelta meno efficiente.
Confrontando quattro ipotetici lavoratori, che 10 anni fa hanno destinato il Tfr rispettivamente: in azienda, a un fondo negoziale, a un fondo aperto o a un Pip a gestione separata.
Il risultato è stato:
per chi ha “mantenuto il Tfr in azienda” oggi abbia un capitale inferiore rispetto a chi ha aderito alla previdenza complementare. E tra le diverse forme, i fondi di categoria sono quelli che mostrano la capacità di rivalutazione maggiore: in media +44% sul Tfr.
I fondi pensione, che utilizzano la finanza a fini previdenziali, hanno mostrato di saper rivalutare i contributi dei lavoratori sui mercati finanziari, più del tasso di rivalutazione del TFR che è pari al 75% dell’inflazione più 1,5%
Ma se razionalmente l’adesione ai fondi pensione è così conveniente, perché ancora oggi solo una minoranza vi aderisce?
Diverse le ragioni e oggetto di studi, non solo di politici ed esperti di previdenza ma anche di psicologi: la finanza comportamentale spiega quanto sia difficile costruirsi un piano di lunghissimo termine senza soluzioni semi-obbligatorie o “spinte” del sistema.
La volontarietà lascia soli i lavoratori, liberi più spesso di sbagliare che di fare il proprio interesse.
Voglio farti tre domande:
1. Sei così convinto che il tuo TFR sia più sicuro lasciarlo in ditta?
2. Hai idea dei tempi d’incasso in caso di fallimento della ditta per cui lavori?
3. Conosci la tassazione che verrà applicata al TFR quando andrai in quiescenza rispetto a quella dei fondi pensione? ne vogliamo parlare?
Non esitare a chiamarmi.